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Le avventure di Tintin |
Scritto da Emanuele Rauco | |
Sunday 06 November 2011 | |
► Il ritorno di Steven Spielberg ha il ritmo, lo spettacolo, le coreografie della pura avventura in stile Indiana Jones
RecensioneSi scrive Tintin, si legge Indiana Jones. E così l’attesa per il ritorno di Steven Spielberg, assente alla regia da Indiana Jones e il regno di cristallo, si risolve tornando ai lidi dell’avventura pura, quella che dall’archeologo con la frusta porta al giornalista dal ciuffo biondo dei fumetti di Hergé. Ed è un divertimento assoluto e scatenato che rilancia – in attesa dello storico War Horse – le quotazioni di uno dei più grandi registi hollywoodiani di sempre. Il giovane reporter Tintin compra in un mercatino il modello di una nave antica, ma subito si accorge che attorno alla nave ci sono molti interessati, su tutti Ivan Sakharine. Cosa nasconde il modellino che porterà il nostro eroe in giro per il mondo? La risposta degli sceneggiatori Steven Moffat (uno dei padri della nuova tv inglese), Edgar Wright e Joe Cornish è in una trascinante sarabanda di azione, duelli e spettacolo che, oltre a portare enorme il marchio spielberghiano, è anche un notevole esempio del potenziale della CGI e del motion capture. Aperto da gustosi titoli di testa in cui il film è condensato tramite ombre e chiaroscuri, Le avventure di Tintin va al cuore del cinema per ragazzi recuperando il senso del cinema anni ’80, quello dei Goonies e di Piramide di paura – per non citare altri film di Spielberg – fatto di tesori, misteri di cartapesta, magie che appartengono all’immaginario dei fumetti e dei bambini: mastro Steven racchiude la sua maestria fatta di senso dell’incredibile (l’impressionante inseguimento a Begghar in “piano-sequenza), azione impeccabile (Milù che segue e salva Tintin), coreografie di precisione superiore (il duello sulle nave). E Spielberg è talmente in forma che si permette di sperimentare sul racconto – con una parte centrale lunghissima tutta in flashback, che recupera uno storytelling tradizionale – mentre pigia l’acceleratore dell’avventura, tanto che tra le musiche di John Williams ti aspetti che esca fuori la fanfara di Indy, e colora ogni inquadratura del suo stile. La tecnica in senso figurativo sembra ancora un po’ fredda e il finale, dopo la maestosità della sequenza precedente, appare un po’ sottotono, ma il film è uno di quei viaggi sull’ottovolante del cinema, l’attestazione della grandezza di una certa Hollywood, che non vorremmo smettere mai di vivere. (Emanuele Rauco)
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